sabato 4 settembre 2010

IL PRIMO DELL' "INFERNO"

Il primo canto fa da prologo a tutto il poema, non al solo "Inferno". Il protagonista non si trova ancora nell'oltremondo, ma ciò che si presenta ai suoi occhi è l'immagine dell'umana vicenda, espressa con simboli subito riconoscibili; dalle tenebre alla luce, dal male al bene, dal dolore alla gioia. In questo scenario simbolico si muove un uomo concreto, ben reale, con un'età definita, che si spaventa, trema e chiede aiuto. La sua richiesta di soccorso sarà raccolta dallo spirito di un personaggio storico, un grande poeta appartenente al mondo precristiano.



Dall'inizio al verso 31

"Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/ chè la diritta via era smarrita./ Ahi quanto a dir qual era è cosa dura/ esta selva selvaggia e aspra e forte/ che nel pensier rinnova la paura!". La "selva" è il mondo decaduto, il disordine etico e morale che affligge l'umanità; il Poeta si colloca al suo interno, conscio di essersi perduto e di non seguire più le virtù, cioè "la diritta via".

Dante definisce l'esistenza umana con la descrizione di un viaggio, un cammino, un pellegrinaggio dell'anima che, volontariamente, si è imposta l'esilio dalla sua vera patria, cioè dal bene e, quindi, da Dio.

Da questo spaventoso luogo, misterioso ed intricato non c'è speranza di uscire; il ricordo della selva incute paura e l'amarezza di questo stato è simile alla morte ("che poco è più morte"), eppure il Poeta affronta nuovamente il timore provato per poter indicare la via della salvezza a tutti gli uomini ("del ben ch'i' vi trovai").

L'ingresso nella selva è avvenuto gradualmente, infatti il protagonista non ricorda il momento in cui è accaduto, ma secondo la confessione a Beatrice, nel Purgatorio, è stato causato dal traviamento morale ed intellettuale ("la verace via abbandonai").

"Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto....", il colle rischiarato dal sole simboleggia la via della virtù, una via in salita, illuminata dalla luce di Dio che si contrappone alla "valle" (o selva) oscura del peccato. In un solo paesaggio, la selva, il colle ed il sole, in realtà, sono disegnati i tre regni che Dante visiterà nel suo viaggio.

Il poeta leva lo sguardo e vede la cima del colle illuminata dalla luce del sole; l'uomo smarrito nella selva, con lo sguardo rivolto in basso, verso le cose temporali, alza la testa verso le cose eterne; la luce del "pianeta" che sta per sorgere (per l'astronomia tolemaica, il sole era uno dei sette pianeti che ruotavano intorno alla terra, centro dell'universo), calma la paura che riempie il suo cuore, al ricordo della "notte ch'i' passai con tanta pieta".

Come chi, salvatosi dal mare in tempesta e giungendo a riva , con il respiro ancora affannato, si volge indietro e fissa il pericolo scampato ("l'acqua perigliosa e guata"), anche il protagonista osserva la selva "che non lasciò già mai persona viva" e dopo essersi riposato un poco, riprende il suo cammino.

Dal verso 32 al verso 90

Appare la prima fiera; un leopardo, che simboleggia la lussuria ("lonza leggera e presta molto"), si muove davanti a Dante, impedendogli di avanzare, anzi, quasi respingendolo verso la selva "selvaggia", ma egli spera ancora di potersi salvare perchè l'ora è propizia.

E' la prima ora del mattino, ora nella quale si pensava che Dio avesse iniziato la creazione
ed è primavera, periodo nel quale si riteneva che l'umanità potesse essere redenta ("l'amor divino/ mosse di prima quelle cose belle").

Accanto al leopardo, compaiono un leone (che rappresenta la superbia) ed una lupa, immagine del vizio peggiore, la cupidigia, che molte persone "fè già viver grame".

L'accanimento di queste tre belve, i tre peccati che conducono l'uomo alla perdizione, che vogliono sospingerlo di nuovo nell'oscurità dell'anima, provoca al protagonista un turbamento tanto profondo che teme di non poter più raggiungere il colle luminoso ("la speranza de l'altezza").

Mentre egli sta per precipitare verso il fondo della valle, improvvisamente, appare "chi per lungo silenzio parea fioco"; di questo verso sono state date innumerevoli interpretazioni, ma, forse, la più realistica è quella che vede Virgilio, simbolo della ragione, con una voce che sembra aver perduto efficacia per non essere stata ascoltata da molto tempo. Egli richiama Dante alla coscienza del bene, dopo il lungo "sonno" del peccato.

Sempre più spaventato, il protagonista invoca pietà rivolgendosi allo spirito appena comparso e gli domanda se si tratta di un'"ombra", cioè di un'anima divisa dal corpo, oppure di "omo certo", quindi con corpo ed anima ancora uniti.

La risposta fornisce al protagonista indizi sull'identità del nuovo personaggio; egli è di origini mantovane, nato prima che Giulio Cesare morisse e vissuto nella Roma dell'imperatore Augusto "nel tempo de li dèi falsi e bugiardi", quindi prima della nascita di Cristo e questo particolare lo esclude dalla conoscenza della verità divina.

Virgilio, come già detto, rappresenta la luce della ragione umana che ha il compito di condurre gli uomini al bene, nei limiti della natura; egli assolve la sua missione quale emblema di quel mondo antico che giunge fino a dove la ragione può guidare l'uomo senza la luce della fede, fin quasi a profetizzare secondo alcuni, la realtà cristiana.

"Poeta fui, e cantai di quel giusto..", afferma di essere un poeta, autore dell'"Eneide" (che Dante aveva studiato e conosceva a memoria, rendendo omaggio all'opera ed al suo creatore innumerevoli volte, nel poema); dopo aver descritto sè stesso, chiede all'uomo mortale per quale motivo indugia in quel luogo angoscioso e non sale sul monte che è "principio e cagion di tutta gioia".

"Or se' tu quel Virgilio e quella fonte/ che spandi di parlar sì largo fiume ?/ rispuos'io lui con vergognosa fronte.", l'esclamazione prorompe con una intensa forza drammatica, la prima nella "Commedia"; Dante non risponde alla domanda postagli, dimentico del suo stato. Trovarsi al cospetto di "quel Virgilio" da lui tanto amato supera ogni altra emozione, ed il suo grido di sorpresa ed amore risuona con intensa umanità; il Poeta si trova davanti all'antico saggio, mentre sta per tornare indietro, e quindi china la fronte per la vergogna della colpa, per lo stupore dell'improvvisa meraviglia apparsagli e per la reverenza dovuta al grande maestro di poesia.

Virgilio è definito "onore e lume.." degli altri poeti, perchè li onora con la sua alta poesia e funge loro da luce e guida nel comporre versi; "lo mio maestro e' l mio autore..", "tu se' solo.." con le tre affermazioni Dante "cancella" tutti i poeti suoi contemporanei e crea un ponte diretto tra sè ed i classici antichi, eleggendosi quale prosecutore.

Queste tre terzine escono dal contesto narrativo, ma appaiono chiaramente come una dichiarazione d'amore verso il poeta mantovano.

Dante invoca l'aiuto del "famoso saggio", mostrandogli la lupa che impedisce il suo cammino e gli fa "tremar le vene e i polsi".

Dal verso 91 alla fine

"A te convien tener altro viaggio.." la risposta di Virgilio non tarda ed egli consiglia a Dante un "altro viaggio", cioè non quello dell'ascesa diretta al monte, ostacolata dalla lupa, ma una strada più lunga attraverso la conoscenza del peccato (inferno) e la scelta di purificazione (purgatorio); la belva - l'avidità - che terrorizza il Poeta, si ciba di chi desidera raggiungere la felicità ed è tanto malevola ed affamata che non si sazia mai, ma, anzi "dopo l' pasto ha più fame che pria".

Questo peccato si "sposa" a molti altri vizi, che si moltiplicheranno ancora finchè il "veltro" lo "farà morir con doglia". Il veltro è un velocissimo cane da caccia, ma a parte il significato letterale della parola, è tuttora un enigma la possibile identità del personaggio preposto a cancellare tali peccati; si pensa, genericamente, ad una figura che al dominio ed al denaro preferirà "sapienza, amore e virtute" e nascerà da una stirpe modesta ("tra feltro e feltro").

Porterà la salvezza a "quella umile Italia" (per Virgilio "umile" ha valenza geografica, cioè indica la bassa costa dove approdò Enea, mentre per Dante ha il significato di misera, infelice), per cui morirono alcuni personaggi dell'"Eneide", "la vergine Cammilla....... Niso", vincitori e vinti accomunati dallo stesso senso di pietà e nella stessa gloria, secondo il tratto tipicamente dantesco e virgiliano.

Il misterioso salvatore caccerà la lupa da ogni terra ("per ogne villa"), fino a farla precipitare nell'inferno, dal quale Lucifero l'aveva scagliata nel mondo per tentare gli uomini ("là onde 'nvidia prima dipartilla").

Al termine di questa profezia Virgilio si rivolge a Dante con un tono più discorsivo e, proponendosi come "guida", l'invita a seguirlo per un cammino non terreno, ma nell'oltremondo, dove potrà vedere "gli antichi spiriti dolenti" (inferno) ed in seguito "color che son contenti/ nel foco.." (purgatorio).

Se il viaggio nei primi due regni è necessario alla salvezza, per l'ascesa in paradiso Dante verrà lasciato libero di seguire la sua volontà. In ogni caso non sarà più Virgilio ad accompagnarlo nel terzo regno, ma una "anima fia a ciò più di me degna". Il poeta antico, essendo nato prima della nascita di Cristo, non ha potuto conoscere la fede ed in questo verso si avverte la malinconia ed il rimpianto per essere escluso dalla grazia e dalla rivelazione.

Il canto si chiude sull'invocazione che Dante rivolge a colui che sarà la sua guida nel lungo peregrinaggio che li attende; proprio in nome di quel Dio che l'antico poeta non conobbe, lo prega di aiutarlo ad evitare i vizi e la dannazione eterna, mostrandogli le anime meste e permettendogli di giungere fino alla "porta di san Pietro"............

"... ALLOR SI MOSSE,
E IO LI TENNI DIETRO"

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